13. октобар 2018.

SIBINOVIĆEVA VERZIJA ŠEKSPIROVSKOG RASPREMANJA ŽIVOTA NA ITALIJANSKOM JEZIKU

Zoran M. Mandić

La versione di Sibinović

dello sparecchiare shakespeariano della vita



Osservando il nuovo manoscritto di ĐORĐE D. SIBINOVIĆ, noto poeta, saggista e scrittore belgradese, sono rimasto stupito dal titolo in copertina che reca la scritta LA PENNA DI WILLIAM SHAKESPEARE. Perché la penna, e oltretutto perché William Shakespeare? A questa domanda si accompagnò il timore che, non avendo subito colto il senso di questo titolo misterioso, mi sarei messo a scrivere un saggio sul ritorno ai tempi della metafora ormai fallita, della figura retorica più criticata e inflazionata della lingua serba. Dopo lo stupore iniziale, dovevo inevitabilmente tornare alle prime raccolte di poesie di Sibinović (Presto, Plodovi, Nešto poverlјivo, Naselјe belih kuća, Rečnik poezije, Hilјadu karaktera, Pesme lјubavi pune e Antologija uporednih snova), per trovare nei “vagoni che viaggiano sulle loro rotaie liriche“ una qualche risposta su quella penna che si chiama William Shakespeare, e perché proprio così, peraltro nel tempo di diffusione delle tecnologie informatiche, quando essa (la penna) la prendiamo sempre meno in mano, quando essa, tutta sfaccendata, “guarda” con tristezza, quasi assente, i tasti della tastiera del computer portatile, oserei dire impotente di trasformarsi nel “Calamo (penna stilografica o penna d’oca) Đorđe D. Sibinović. Ma quali risposte avrei mai potuto trovare tra i linguaggi, i caratteri, i borghi, le antologie e i sogni dei primi versi di Sibinović nei quali il poeta sfida a duello di spada il saggista. Nei quali, come in una “fiera delle perplessità”, si intrecciavano pensieri filosofici su fenomeni quali Dio, la lingua, il senso, l’amore, la morte e la propria vita. Eppure è, per usare un eufemismo, discutibile cercare, aspettarsi e trovare risposte pronte, o per lo meno immaginarle con l’aiuto della “carta di identità” del carattere e del tessuto del DNA del perno della poesia, attorno al quale si raccolgono e si creano i giudizi principali che prima di tutto definiscono la lingua, il gusto e i valori. Per evitare che le cose si complichino, poiché in tali situazioni il lettore e il critico si imbattono nelle difficoltà dell’interpretazione di un testo che porti un titolo che parla da sé, bisogna ricordare che il segreto della poesia è celato per lo più nella sfera ontologicamente emotiva, ritrova fondamento in sé stessa, e non in qualche altra esperienza atemporale, o interesse ideologico, cognitivo, morale e materialistico. Tale incongruenza coincide con il noto divario tra la verità poetica/artistica e quella della vita. E perciò Sibinović ha tentato così di plasmare la propria lirica, nonché la sua visione antropologica, a mo’ di immagini narrative estetiche ed etiche dalle quali è impossibile escludere l’uomo quale creatore e destinatario. La poesia di Sibinović - importante sottolinearlo - si basa sull’assunto di unire e prendere entrambe le posizioni, ovvero quella del poeta e dell’antropologo, con tutte quelle allusioni che illuminano la “confessione” dell’esperienza e della conoscenza nel campo del “lavoro”, e di utilizzare alcune figure retoriche, soprattutto la metafora, la quale può modificare esteticamente i contenuti scansionati dei sentimenti del ricordo e delle loro “dissezioni” sotto le ombre e i riflettori di sguardi e rivisitazioni sparpagliati e ricapitolativi.
In questa riflessione, così presentata, domina la voce della bramosia del poeta di far propria la nozione di quel modo e di quella narrativa di “disfare ovvero sparecchiare la biografia” della propria vita, dalla quale si odono voci dissonanti, contrastanti e imperfette che vorrebbero unirsi nell’essere identità di questa stanca (auto)biografia. E che, come un richiamo di molteplici dettagli, scatena di nuovo, o almeno sembra, l’interrogativo principale: se il poeta senza “la penna di William Shakespeare” può raccontare il dramma della vita prima di incorniciarlo in un’autobiografia? E, da un punto di vista antropologico, se è capace di far esteticamte uno scambio tra il reale e l’immaginario, come scrisse Edgar Morin in un contesto simile?




                Riflettendo sul contesto di tali interrogativi e della ricerca di risposte agli stessi, vanno ricordate le parole di Kazimir Malevič, che con convinzione affermò “che la nostra epoca contemporanea deve capire che la vita non deve essere il contenuto dell’arte, bensì l’arte deve essere contenuta nella vita, poiché solo così la vita può essere bella”. Eppure Sibinović nella sua nuova raccolta di poesie LA PENNA DI WILLIAM SHAKESPEARE, composta da trentadue poesie, tenta di cantare/parlare della vita come la maggiore opera divina, al limite sensibile tra i poli del reale e dell’immaginario, di ciò che brama e ciò che accade realmente, come un drammatico scetticismo che di solito emana dall’esperienza personale, i cui drammi furono messi su carta dal gigante del teatro drammatico, William Shakespeare, in maniera così suggestiva. In una composizione maestrale di scontri e commenti degli eventi della vita che accadono, che si intrecciano e che si susseguono, il lettore deve in particolare, tra i vari angoli e cantoni amorosi, familiari, culturali e politici, concentrarsi sulla lingua e sul “pensiero” della versione dello “sparecchiare shakespeariano della vita” di Sibinović.
                Per questo motivo, esposizioni così abilmente ordinate e collegate per argomento di queste liriche brevi, seppur essenziali, si possono leggere e interpretare come sentimenti di delusione nella società, nella famiglia, nel matrimonio, nel sesso (La bella) e nella gente (La democrazia). Il personaggio di questa delusione porta nel confronto con la propria maturità, come scrisse Bela Hamvaš, che afferma che la “terza maturità” è la maturità per morire, quando le ossa, i muscoli, il sangue e il corpo ti abbandonano, quando sopravviene la tristezza per la transitorietà della giovinezza e della vita. La strategia di inquadramento di questo sentimento viene inserita da Sibinović in alcune delle prime, direi “introduttive”, poesie della raccolta La penna di William Shakespeare (La bicicletta, La mostra, La terapia, La spuntata e La foschia), attraverso la quale nella maniera più aperta possibile riusciamo a parlare di ciò che ha colpito personalmente qualcuno, ciò che per qualcuno vale la pena vivere mentre per altri no. Insomma, la forte consapevolezza psicologica che la vita è breve e transitoria porta delusione, ma anche un desiderio, al livello di una ribellione interiore, che nell’ombreggiatura di tale sentimento colui che lo “canta” è sì comprensibile, ma non visibile (La spuntata). Tale sentimento prosegue stonando nella convinzione che il meglio della vita è già successo, che il futuro apporta solo il ricordo del dolore e di fatiche inutili, e che in tale “futuro” ci ricorderemo solo l’enorme sforzo o struggimento di ritrovare nell’invisibile (foschia) la strada del successo (La foschia). Per questo motivo nel processo di riconoscimento di tali sentimenti sembra che questa raccolta sia davvero concepita come una “storia” shakespeariana del disfare o del sparecchiare della propria vita. Una storia in cui il lettore si confronta con la “terapia” nei personaggi di “passeggiate obbligate” dopo gli infarti e con medicinali che si prendono in quantità tali da spariscono come se fossero stati rubati. Il profilo del legame tematico delle poesie emerge particolarmente nella poesia intitolata Il crepuscolo in cui l’accento è posto sulla riunione di una famiglia e sull’emergere dei sentimenti di solitudine e incomprensibilità. Di fronte a questo sentimento nella poesia La congiura si risveglia la consapevolezza di dover cercare un luogo per trovare la tranquilità, un luogo nella scrittura e nell’accettazione di sé stessi come l’uomo/l’individuo è e deve essere, e che nella poesia della “svolta” La rivelazione fa presagire una conclusione ironica, ovvero che alla fine vi sarà ciò che deve essere, il che non è altro che il famoso adagio let it be (lascia che sia, o “buona novella”). Nascosti in “pelle stretta” di questa poesia, in un modo per così dire “ideologico”, si son inseriti quei “gridi” testuali delle poesie Il ghiaccio nero e L’identità.
                Va infine detto che Sibinović è abile nel gestire il linguaggio nascosto delle sue poesie, e che nella “lotta” per la loro invisibilità ma anche, giustamente detto, per la loro segretezza, le copre con il vello dell’ermeticità, con il quale, in un certo senso, afferma che con questo libro voleva esprimere il suo vissuto di drammaticità del mondo contemporaneo, di un mondo in cui ancora oggi imperversano guerre di religione e guerre civili e discorsi su una sedicente democrazia. Egli, tra le altre cose, ritiene che si possa scrivere in maniera più suggestiva su ciò che attraverso l’esperienza personale si trasforma in vissuto.
                Per questo motivo la sua poesia raggiunge una specifica universalità ed originalità intellettuale, emotiva, estetica, poetica ed ironica, nell’auspicio che la poesia futura, o la poesia del futuro, canti e parli a nome delle sue svolte storiche desiderando un ideale di una sempre attiva e retroattiva rivalutazione. In tale desiderio si scorgono chiaramente anche la forza, e lo sforzo di Sibinović di esprimersi tenendo presente la poesia nel suo complesso, il cui sviluppo deve andare alla velocità delle tecnologie informatiche, il che implica la “distruzione” dei relitti delle rime di scarsa qualità e dei sonetti di poco cervello.
               

     Ovaj tekst Zorana M. Mandića sa srpskog na italijanski jezik prevela Elizabeta Vasiljević. Tekst je prethodno pod naslovom "Sibinovićeva verzija šekspirovskog raspremanja života", na srpskom objavljen u Sibinovićevoj knjizi pesama OLOVKA VILIJAM ŠEKSPIR (Književna zajednica "Borisav Stanković", Vranje, 2018.).

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