Zoran M. Mandić
La versione di Sibinović
dello sparecchiare shakespeariano della vita
Osservando il nuovo
manoscritto di ĐORĐE D. SIBINOVIĆ, noto poeta, saggista e scrittore belgradese,
sono rimasto stupito dal titolo in copertina che reca la scritta LA PENNA DI WILLIAM SHAKESPEARE. Perché
la penna, e oltretutto perché William Shakespeare? A questa domanda si
accompagnò il timore che, non avendo subito colto il senso di questo titolo
misterioso, mi sarei messo a scrivere un saggio sul ritorno ai tempi della metafora
ormai fallita, della figura retorica più criticata e inflazionata della lingua
serba. Dopo lo stupore iniziale, dovevo inevitabilmente tornare alle prime
raccolte di poesie di Sibinović (Presto,
Plodovi, Nešto poverlјivo, Naselјe belih kuća, Rečnik poezije, Hilјadu
karaktera, Pesme lјubavi pune e Antologija uporednih snova), per trovare nei
“vagoni che viaggiano sulle loro rotaie liriche“ una qualche risposta su quella
penna che si chiama William Shakespeare, e perché proprio così, peraltro nel
tempo di diffusione delle tecnologie informatiche, quando essa (la penna) la prendiamo
sempre meno in mano, quando essa, tutta sfaccendata, “guarda” con tristezza,
quasi assente, i tasti della tastiera del computer portatile, oserei dire
impotente di trasformarsi nel “Calamo (penna
stilografica o penna d’oca) Đorđe D. Sibinović”. Ma quali risposte avrei mai potuto trovare tra i linguaggi, i caratteri, i borghi, le
antologie e i sogni dei primi versi di Sibinović nei quali il poeta sfida a
duello di spada il saggista. Nei quali, come in una “fiera delle perplessità”,
si intrecciavano pensieri filosofici su fenomeni quali Dio, la lingua, il
senso, l’amore, la morte e la propria vita. Eppure è, per usare un eufemismo,
discutibile cercare, aspettarsi e trovare risposte pronte, o per lo meno
immaginarle con l’aiuto della “carta di identità” del carattere e del tessuto
del DNA del perno della poesia, attorno al quale si raccolgono e si creano i giudizi
principali che prima di tutto definiscono la lingua, il gusto e i valori. Per evitare che le cose
si complichino, poiché in tali situazioni il lettore e il critico si imbattono
nelle difficoltà dell’interpretazione di un testo che porti un titolo che parla
da sé, bisogna ricordare che il segreto della poesia è celato per lo più nella
sfera ontologicamente emotiva, ritrova fondamento in sé stessa, e non in
qualche altra esperienza atemporale, o interesse ideologico, cognitivo, morale
e materialistico. Tale incongruenza coincide con il noto divario tra la verità poetica/artistica
e quella della vita. E perciò Sibinović ha tentato così di
plasmare la propria lirica, nonché la sua visione antropologica, a mo’ di
immagini narrative estetiche ed etiche dalle quali è impossibile escludere
l’uomo quale creatore e destinatario. La poesia di Sibinović - importante
sottolinearlo - si basa sull’assunto di unire e prendere entrambe le posizioni,
ovvero quella del poeta e dell’antropologo, con tutte quelle allusioni che
illuminano la “confessione” dell’esperienza e della conoscenza nel campo del
“lavoro”, e di utilizzare alcune figure retoriche, soprattutto la metafora,
la quale può modificare esteticamente i contenuti scansionati dei sentimenti
del ricordo e delle loro “dissezioni” sotto le ombre e i riflettori di sguardi
e rivisitazioni sparpagliati e ricapitolativi.
In questa riflessione,
così presentata, domina la voce della bramosia del poeta di far propria la
nozione di quel modo e di quella narrativa di “disfare ovvero sparecchiare la
biografia” della propria vita, dalla quale si odono voci dissonanti,
contrastanti e imperfette che vorrebbero unirsi nell’essere identità di questa
stanca (auto)biografia. E che, come un richiamo di molteplici dettagli, scatena di nuovo, o
almeno sembra, l’interrogativo principale: se il poeta senza “la penna di William Shakespeare” può
raccontare il dramma della vita prima di incorniciarlo in un’autobiografia? E,
da un punto di vista antropologico, se è capace di far esteticamte uno scambio
tra il reale e l’immaginario, come scrisse Edgar Morin in un contesto simile?
Riflettendo sul contesto
di tali interrogativi e della ricerca di risposte agli stessi, vanno ricordate
le parole di Kazimir Malevič, che con convinzione affermò “che la nostra epoca
contemporanea deve capire che la vita non deve essere il contenuto dell’arte,
bensì l’arte deve essere contenuta nella vita, poiché solo così la vita può
essere bella”. Eppure Sibinović nella sua nuova raccolta di poesie LA PENNA DI WILLIAM SHAKESPEARE,
composta da trentadue poesie, tenta di cantare/parlare della vita come la
maggiore opera divina, al limite sensibile tra i poli del reale e
dell’immaginario, di ciò che brama e ciò che accade realmente, come un
drammatico scetticismo che di solito emana dall’esperienza personale, i cui
drammi furono messi su carta dal gigante del teatro drammatico, William
Shakespeare, in maniera così suggestiva. In una composizione maestrale di
scontri e commenti degli eventi della vita che accadono, che si intrecciano e
che si susseguono, il lettore deve in particolare, tra i vari angoli e
cantoni amorosi, familiari, culturali e politici, concentrarsi sulla
lingua e sul “pensiero” della versione dello “sparecchiare shakespeariano della
vita” di Sibinović.
Per
questo motivo, esposizioni così abilmente ordinate e collegate per argomento di
queste liriche brevi, seppur essenziali, si possono leggere e interpretare come
sentimenti di delusione nella società, nella famiglia, nel matrimonio, nel
sesso (La bella) e nella gente (La democrazia). Il personaggio di questa delusione porta nel confronto con la propria
maturità, come scrisse Bela Hamvaš, che afferma che la “terza maturità” è la maturità per morire, quando le
ossa, i muscoli, il sangue e il corpo ti abbandonano, quando sopravviene la
tristezza per la transitorietà della giovinezza e della vita. La strategia di
inquadramento di questo sentimento viene inserita da Sibinović in alcune delle prime,
direi “introduttive”, poesie della raccolta La penna di William Shakespeare (La bicicletta, La mostra, La terapia, La spuntata e La foschia), attraverso la quale
nella maniera più aperta possibile riusciamo a parlare di ciò che ha colpito
personalmente qualcuno, ciò che per qualcuno vale la pena vivere mentre per
altri no. Insomma, la forte consapevolezza psicologica che la vita è breve e transitoria
porta delusione, ma anche un desiderio, al livello di una ribellione interiore,
che nell’ombreggiatura di tale sentimento colui che lo “canta” è sì
comprensibile, ma non visibile (La spuntata). Tale sentimento prosegue
stonando nella convinzione che il meglio della vita è già successo, che il
futuro apporta solo il ricordo del dolore e di fatiche inutili, e che in tale
“futuro” ci ricorderemo solo l’enorme sforzo o struggimento di ritrovare nell’invisibile
(foschia) la strada del successo (La foschia). Per questo motivo nel processo di riconoscimento di tali sentimenti sembra
che questa raccolta sia davvero concepita come una “storia” shakespeariana del
disfare o del sparecchiare della propria vita. Una storia in cui il
lettore si confronta con la “terapia” nei personaggi di “passeggiate obbligate”
dopo gli infarti e con medicinali che si prendono in quantità tali da
spariscono come se fossero stati rubati. Il profilo del legame tematico delle
poesie emerge particolarmente nella poesia intitolata Il crepuscolo in cui l’accento è posto
sulla riunione di una famiglia e sull’emergere dei sentimenti di
solitudine e incomprensibilità. Di fronte a questo sentimento nella poesia La congiura si risveglia la
consapevolezza di dover cercare un luogo per trovare la tranquilità, un luogo nella
scrittura e nell’accettazione di sé stessi come l’uomo/l’individuo è e deve
essere, e che nella poesia della “svolta” La rivelazione fa presagire una conclusione ironica, ovvero che alla fine vi sarà ciò che
deve essere, il che non è altro che il famoso adagio let it be (lascia che sia, o “buona novella”). Nascosti in “pelle
stretta” di questa poesia, in un modo per così dire “ideologico”, si son
inseriti quei “gridi” testuali delle poesie Il ghiaccio nero e L’identità.
Va infine detto che
Sibinović è abile nel gestire il linguaggio nascosto delle sue poesie, e che nella
“lotta” per la loro invisibilità ma anche, giustamente detto, per la loro segretezza,
le copre con il vello dell’ermeticità, con il quale, in un certo senso, afferma
che con questo libro voleva esprimere il suo vissuto di drammaticità del mondo
contemporaneo, di un mondo in cui ancora oggi imperversano guerre di religione
e guerre civili e discorsi su una sedicente democrazia. Egli, tra le
altre cose, ritiene che si possa scrivere in maniera più suggestiva su ciò che
attraverso l’esperienza personale si trasforma in vissuto.
Per questo motivo la sua
poesia raggiunge una specifica universalità ed originalità intellettuale,
emotiva, estetica, poetica ed ironica, nell’auspicio che la poesia futura, o la
poesia del futuro, canti e parli a nome delle sue svolte storiche desiderando
un ideale di una sempre attiva e retroattiva rivalutazione. In tale desiderio si
scorgono chiaramente anche la forza, e lo sforzo di Sibinović di esprimersi tenendo
presente la poesia nel suo complesso, il cui sviluppo deve andare alla velocità
delle tecnologie informatiche, il che implica la “distruzione” dei relitti delle
rime di scarsa qualità e dei sonetti di poco cervello.
Ovaj tekst Zorana M. Mandića sa srpskog na italijanski jezik prevela Elizabeta Vasiljević. Tekst je prethodno pod naslovom "Sibinovićeva verzija šekspirovskog raspremanja života", na srpskom objavljen u Sibinovićevoj knjizi pesama OLOVKA VILIJAM ŠEKSPIR (Književna zajednica "Borisav Stanković", Vranje, 2018.).
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